INTERVISTA-Lorenzo Galbiati: Ennio Abate e “Immigratorio”- Prima parte

john caple

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Dove, a cosa davvero mira, ti chiedo,
questa tua improvvisazione nel mutare?
Lascia maturare il tuo destino intorno a noi.
Tutto già cambia contro il desiderio di durare.
(Sa’ quanta vote t’aggia addimmannate:
addò vuò arrivà cu sta smanie e cagnà?
Tutte cagne e spezz’a voglie e campà.)

Da Lettera di lamento di Karl Bis

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Ennio Abate nasce a Baronissi in provincia di Salerno nel 1941. Finita la Seconda guerra mondiale, nel 1945 la famiglia si trasferisce a Salerno. Completati gli studi liceali e iniziati quelli universitari a Napoli (Lingue e letterature straniere) li interrompe e nel 1962 si trasferisce (alla ventura) a Milano. È impiegato al Comune, si licenzia, prende l’abilitazione in disegno e s’iscrive all’Accademia di Brera. Interrompe anche questi studi, si sposa, va a vivere a Cologno Monzese, ha due figli. Da studente lavoratore (operaio notturnista alla SIP) partecipa all’occupazione della Statale nel ‘68, si laurea in Lettere (indirizzo storico) nel 1971 e milita in Avanguardia Operaia dalla sua fondazione fino alla scissione (1976). Dopo la laurea, fa per un anno l’educatore nel “Centro per subnormali gravi” di via Adriano a Milano, il supplente – sempre per un anno – nella scuola media sperimentale di Senago; e insegnerà poi italiano e storia nelle scuole superiori (Sesto S. Giovanni, Milano) fino al pensionamento nel 1998. 

La sua attività artistica e letteraria è stata condotta – in ombra e ai margini – accanto a quelle di militante e di insegnante. Ha collaborato saltuariamente a varie riviste (Allegoria, Hortus Musicus, Inoltre, Il Monte Analogo, La ginestra) ed ha avuto incontri con poeti operanti a Milano (Fortini, Majorino e Neri). Ha tradotto dal francese e curato manuali scolastici sulla Commedia di Dante ed è stato coautore del volume sul Novecento di DI FRONTE ALLA STORIA (Palumbo 2009). Ha pure coordinato l’Associazione culturale Ipsilon a Cologno Monzese (1989-1999) e il Laboratorio Moltinpoesia alla Palazzina Liberty di Milano (2005- 2012). Nel 1991 è finalista al Premio di poesia Laura Nobile presieduto da Franco Fortini. Ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Salernitudine (Ripostes 2003, con prefazione di Michele Ranchetti); Prof Samizdat (E-book, Edizioni Biagio Cepollaro 2006); Donne seni petrosi (Fare Poesia 2010, con prefazione di Paolo Giovannetti); Immigratorio (Edizioni CFR di Gianmario Lucini, 2011, con prefazione di Pietro Cataldi); La polis che non c’è (Edizioni CFR di Gianmario Lucini – Premio Franco Fortini 2012, con prefazione di Massimiliano Tortora). Altri scritti suoi si leggono sul sito Poliscritture e sui blog Moltinpoesia e Poesia e Moltinpoesia. On line in Narratorio grafico di Tabea Nineo si trovano pure parte dei suoi disegni e dipinti.

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1) Ennio, nel 2011 hai pubblicato Immigratorio, che Pietro Cataldi considera la tua opera “più matura”. Il libro è diviso in tre parti, ma inizia con gli Antefatti, in cui ricorrono alcuni temi portanti di Salernitudine: la descrizione di un paesaggio rurale e agreste pieno di animali e piante da frutto o coltivabili; la solitudine di un ragazzino di fronte alla scoperta dell’altro sesso; il rapporto con la religione; i riti della comunità, che spesso si concentrano sui momenti mortuari dei parenti o di personaggi significativi del paese. Ritrovi questi motivi nelle tue due opere?

Sì, e perciò sottolineerei la continuità fra Salernitudine e Immigratorio (ma pure qualche discontinuità). Continuità proprio per la presenza all’inizio della nuova raccolta (e quindi in posizione di rilevo) della sezione Antefatti, dove vengono richiamati i temi di Salernitudine da te indicati. Poi perché nel contesto diverso – metropolitano, settentrionale, moderno – di Immigratorio, ho trascinato la “reliquia” – paesana-provinciale, meridionale, pagano-cattolica – di Salernitudine. Per cui i temi, pur diversi e “settentrionali” di Immigratorio, sono imbevuti della stessa amarezza che prevale in Salernitudine. Inoltre, le figure evocate in Immigratorio appartengono a ambienti sociali – basso ceto impiegatizio della metropoli milanese, immigrati dell’hinterland – non troppo distanti dalle figure di Salernitudine, anch’esse assorbite da pensieri, drammi e fatiche del quotidiano. Ancora continuità c’è nella scelta delle forme miste: versi e prose. Già in Salernitudine1 avevo inserito pezzi in prosa: le “due quinte” (Ranchetti) all’inizio e alla fine della raccolta2. E nell’intento di contenere il lirismo, avevo trasformato in prosa pezzi precedentemente nati in versi. Infine, sempre per insistere sulla continuità, aggiungo che nelle versioni preliminari di Immigratorio, inviate ad alcuni amici per avere un’opinione e poi abbandonate, c’era una sezione Barunisse ben più ampia del testo di due pagine con tale titolo approdato in Immigratorio. La discontinuità, invece, sta nella inconciliabilità del mondo della Salernitudine con quello dell’Immigratorio, riassunta nel contrasto fra Karl Bis e Vulisse – due emblemi: il primo della Salernitudine, il secondo dell’Immigratorio.

2) In confronto a Salernitudine, questo Immigratorio è un’opera più complessa e composita, dove la prosa ha una importanza maggiore; infatti, andando avanti nella lettura, la poesia e il dialetto salernitano si diradano e i pezzi narrativi in italiano diventano dominanti. A cosa è dovuta questa scelta?

Rispetto a Salernitudine i pezzi in prosa sono più numerosi, presenti in tutte le sezioni dell’Immigratorio e, sì, hanno un’importanza maggiore. Restano, però, pezzi, frammenti. E alcuni di essi, se analizzati a fondo, rivelerebbero – nel ritmo e in certi tagli delle frasi o delle immagini – la loro matrice più lirica ed emotiva. Ad esempio, il Rapporto su Vulisse a Mi di un suo incognito tutore con una confidenza della signorina Ann era nato in versi (liberi) che ho poi deciso di sciogliere in prosa. È anche vero che in Immigratorio il dialetto si dirada e svanisce. Questo perché il contesto sociale, a cui allude Immigratorio, è quello vario, duro, conflittuale della metropoli e della periferia del Nord. Si diradano e svaniscono certe emozioni che solo in dialetto potevano essere dette. E più prosa significa più stacco tra l’esperienza infantile e adolescenziale fissata in Salernitudine, e esperienza da giovane o da adulto fatta tra Milano e Colognom (Alto-Basso immigratorio). Più prosa significa pure che, rotti i “presupposti monologici” del genere lirico, s’apre una “prospettiva plurale” (Cataldi, pag. 4). Si delinea così un “soggetto plurale”, un “Vulisse collettivo” che parla sempre più in “una dimensione plurale e in qualche modo processuale” (Cataldi, pag. 5). E, dunque, si ha una “polifonia”, “una poesia di personaggi, e dell’io come personaggio o serie di personaggi” (Cataldi, pag. 6).

3) La trama del testo si concentra sul personaggio Vulisse, che prende congedo dalla città-presepe di Salerno e migra al Nord. In Ahi, salernitudine! un componimento non saprei dire se di prosa o di poesia, scrivi: 

Città mai mia, battuta da temporali di punizione, sono tornato. Mi dirai i significati che nascondevi al bimbo che spezzasti? 

Ecco, come lettore non sono riuscito a cogliere le differenze tra Baronissi, il tuo paese natale, e Salerno. Suppongo che ci siano profondi significati personali, poetici e simbolici associati a questi due luoghi. Potresti aiutarmi a sbrogliare la matassa?

Barunisse e Salerno sono due mondi simbolici diversi e in contrasto. Barunisse (Baronissi) è il paese natale, Salerno la città di formazione. Barunisse è il mondo campagnolo assaggiato per pochi anni da ragazzo. Ed ha tratti abbastanza vicini all’animalesco (Cfr. “Babbasciò”3. Nella sezione Barunisse, poi espunta da Immigratorio4 c’era una composizione in un dialetto giocherellone, quasi onomatopeico e anch’esso sensualmente animalesco5. Alcune figure di Barunisse hanno poi un legame con l’antico (o persino con l’arcaico). Penso che mi sia arrivato – ma solo per tracce minime, assorbite da ragazzo, nato durante la guerra e cresciuto poi nel dopoguerra in una dimensione quotidiana, incantata e non storica – attraverso la lettura di fiabe, catechismi e vite di santi. Più tardi certe immagini fantasticate, provenienti dalle mie letture liceali (Pascoli, testi greci e latini), e poi altre suggestioni mitiche e contadine, rafforzate dalla lettura appassionata di Cesare Pavese, le proiettai sullo sfondo vivo delle terre di campagna e delle case coloniche dei parenti, la cui vita conservava elementi di paganesimo popolare. Mi sono accorto dopo, venendo a sapere in ritardo delle ricerche di Ernesto De Martino, che esso era residuale e già “lavorato” o corrotto dalla storia nazionale dell’Italia fascista e del primo dopoguerra. Questa mi era rimasta ignota perché silenziata dagli adulti (professori di liceo compresi) per tutto il periodo in cui sono rimasto a Salerno (fino al 1962). Salerno è stata, invece, per me esclusivamente e amaramente salernitudine: condizione emotiva e dolente del mio rapporto con la città “battuta da temporali di punizione” e poi abbandonata. Quel rapporto e quella rottura mi hanno riproposto di continuo temi aggrovigliatissimi: corpo, emozioni, religiosità, ideologia popolare cattolica, vita comunitaria da “parrocchietta del Sud”, vocazzione, carriera scolastica spezzettata e contorta, fuga da Salerno. Ancora oggi, da vecchio, continuo a scavarli nel “narratorio” in prosa ancora inedito6 e che temo resterà incompiuto.

4) La prima parte, Alto Immigratorio a MI, è quella più breve ma forse più intensa – di certo la mia preferita. Si apre con un brano molto significativo dove si descrive lo spaesamento di Vulisse arrivato a Milano, bellissimo il pezzo: 

già solo nel chiedere l’ora o farsi indicare la strada, temeva gli agguati della propria malagrazia, l’imbarazzo, l’ansia penosa o il sospetto, che poteva spuntare d’improvviso nello sguardo di quelli che decideva alla fine di avvicinare. E nessuno in realtà poteva rispondergli, dirgli quel che voleva sentire: la ragione del suo essere capitato lì, in mezzo a loro. 

È lecito considerare Vulisse – penso anche ai brani sull’accademia di Brera – il tuo alter ego?

Credo di sì, ma penso allo stesso tempo che non è stato solo Vulisse il mio alter ego. Lo è stato anche Karl Bis. E lo sono state pure le altre maschere che ho usato in altri lavori: Robinson o un discendente del pastore errante in Donne seni petrosi. Oppure prof Samizdat. L’io è – la psicanalisi lo conferma – molteplice. E non ha un unico alter ego. Almeno nel mio caso. Le maschere – e quelle che uno si sceglie non sono mai arbitrarie – aiutano ad uscire dai rischi di un io autobiografico illusoriamente vero o autentico, che basterebbe “mettere a nudo”. Non mi infastidisce l’autobiografismo, se è critico. Io stesso controllo le mie scritture sul mio vissuto (e semipensato), che ho sempre raccolto per quel che ho potuto in un diario sia pur disordinato, ma questo vissuto è soltanto la base elementare della mia ricerca e non la esaurisce.

5) Come sottolinea bene Cataldi nella Prefazione, lo scarto dialettico e linguistico tra chi va via – Vulisse – e chi rimane a Salerno – l’amico Karl Bis – “non concede compromessi o intese possibili”. 

Te ne andasti odiando noi e te stesso

dice (in dialetto) Karl Bis nella sua intensa Lettera di lamento. Quanto questa suggestione riflette la tua storia personale?

Molto ma, come ho appena detto, non del tutto. È indubbiamente la dialettica presente in Immigratorio. Karl Bis è quello che resta, che non emigra. Vulisse quello che va, che si strappa dal luogo (paese, città) in cui è nato e ha cominciato a crescere. Le due figure sono complementari e ambiguamente intrecciate tra loro.  Il nome ‘Karl Bis’, attribuito alla figura conservatrice e moderata, è paradossalmente quasi straniero e moderno7. Il nome ‘Vulisse’ (= ‘Vorrei’ o anche ‘Vorrebbe’ in salernitano/napoletano), pronunciato di solito con una tonalità scettica e sarcastica, evoca per assonanza il nome di Ulisse, l’eroe omerico – un “coatto” del viaggio per eccellenza – ma desublimandolo, abbassandolo, volgarizzandolo. L’ambiguità dei due personaggi è resa nel linguaggio. La Lettera di lamento di Karl Bis è un alternarsi di dialetto salernitano/napoletano (mia lingua materna) e italiano (mia lingua acquisita con la mediazione di un’autorità, in fin dei conti paterna): una mescolanza conflittuale e complementare, perché un medesimo contenuto semantico è espresso dal personaggio prima in italiano e successivamente in dialetto. C’è poi l’ambiguità psicologica del duo Karl Bis/Vulisse. Accanto ai tratti positivi (pazienza e fiducia nella parola; solidarietà fraterna e comunitaria; atteggiamento allarmato, ma tollerante e protettivo verso chi si ribella all’ordine della comunità) Karl Bis ha la sua parte negativa. Per lui Vulisse è, comunque, uno che si stacca dal noi, dalla comunità, per una «oscura maturazione» che egli non capisce. Lo vede come uno dominato dal furore di «mutare» (e mutarsi), in preda dunque a un delirio; e impossibilitato a raccontare/comunicare in parole la sua tormentosa esperienza dell’immigratorio. Vulisse è in posizione difensiva nei confronti di Karl Bis. Non lo attacca, non mette sotto accusa la sua comunità statica e opprimente né l’atteggiamento dell’amico improntato al sospetto, alla diffidenza alla svalutazione del mondo in mutamento in nome di una visione naturalistica e fatalistica della vita. Vulisse non nega il proprio «folle agire», anche se rivendica con forza la rottura. Ha almeno abbandonato la “comunità presepe”. Non nega neppure che il suo essersi messo in moto sia prosaicamente doloroso («dolore da supermercato»). Il suo stare nel «vento di folla» (la modernità, la vita metropolitana) non è esaltante. Anzi viene “sfondato” da quel vento di ignoti, che svela la sua fragilità, il suo torbido spaesamento. Eppure una cosa rivendica: solo quel vento gli ha passato «la speranza».  

Lorenzo Galbiati

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NOTE AL TESTO

  1. Ma non in Samizdat Colognom, Edizioni CELES, Cologno Monzese, 1983. In quella che fu la mia prima raccolta pubblicata ci sono esclusivamente versi.
  2. In Salernitudine ci sarebbe anche da considerare l’inserimento di miei disegni che, nati in autonomia e in tempi diversi rispetto alla scrittura, riprendono gli stessi temi della raccolta.
  3. In proposito, avendo da poco pubblicato l’analisi che di Salernitudine fece nel 2004 Gianni Turchetta (http://www.poliscritture.it/2023/08/31/gianni-turchetta-su-salernitudine/), rimanderei a quella e in particolare a quanto dice sul mio bestiario, che con Barunisse ha un profondo legame.
  4. Lettera a Cataldi (10 gen. 2010): “Dalla raccolta ho eliminato tutti i testi già apparsi in “Salernitudine” e, di inedito, il duetto Zichilibò-Uva puttanella, perché, abbandonando l’impianto precedente (cronologico), il duetto nel contesto dell’ultima versione mi pare fuori posto e isolato.”
  5. L’ho poi pubblicata a parte qui: https://moltinpoesia.wordpress.com/2013/10/29/ennio-abatebabbascio-e-uva-puttanella/
  6. Cfr. Alcuni brani di A Vocazzione pubblicati su Poliscritture on line
  7. Lo inventai avendo in mente il Karl kafkiano di America, uno dei primi libri della mia formazione letteraria giovanile; e abbreviando il cognome di un mio caro amico di liceo, Carlo Bisogno, che davvero rappresentò per me, nella vita reale, la figura di colui che resta, che non parte e che si tiene saldo al dialetto, alle scelte di vita, di cultura e di professione tradizionali di un luogo (SA) negli anni ‘50 ancora luogo. (Augé etc.)

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