INTERVISTA- Lorenzo Galbiati: Ennio Abate e “Immigratorio”- Seconda parte

john caple

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Il Capitale, toh! L’oscuro e basso immigratorio
parve sollevarsi – ooohhh! – ai paradisi tersi della Teoria

 

Il Capitale, toh! L’oscuro e basso immigratorio parve sollevarsi – ooohhh! – ai paradisi tersi della Teoria. Quasi squame, il saio cadde di dosso ai tanti addestratisi in scuole e sacristie – un po’ nei Sud, un po’ nei Nord – a coccolare la cosa che chiamavano anima. Che ora penzolava vizza come le sorbe appese nel gelo delle nostre infanzie appisolate. E volentieri adesso ce lo sbriciolavamo noi stessi il poco d’animella rimastoci, come un biscottino in saccoccia.

(Da: Leggere Il Capitale)

6) Nella seconda parte dell’opera, Basso Immigratorio a Colognom, Vulisse si trasferisce dalla metropoli milanese alla periferia di Cologno Monzese. La struttura della narrazione diventa ancora più stratificata, i temi passano dal personale al collettivo e il soggetto narrante si trasforma in tante pluralità; in altre parole, le questioni sociali e politiche assumono un carattere preminente. In Leggere Il Capitale scrivi: 

A sera tardi prime letture del «Manifesto del partito comunista» nello scantinato del bar di Elsa assieme a una decina di operai di Colognom allucinati per una giornata di lavoro nelle piccole fabbriche. Il Capitale, toh! L’oscuro e basso immigratorio parve sollevarsi – ooohhh! – ai paradisi tersi della Teoria. […] Eravamo contenti, risarciti, in mezzo a sconosciuti coetanei a urlare in coro un desiderio innocente e truce. Un Vulisse collettivo ora. Contro muri di poliziotti a difesa del «Corsera».

Dalla catechesi in parrocchia alle riunioni notturne per studiare il marxismo. Immagino siano esperienze che tu abbia vissuto in prima persona. Cosa cercavate di fare? Volevate imparare come si organizza la lotta di classe? E a cosa alludi parlando dei poliziotti che difendono il Corriere della Sera?

Leggere Il Capitale (1965), come sai, è un’opera fondamentale di Louis Althusser che circolava fra i militanti dei gruppi politici degli anni ‘70. Non certo facile da studiare. Qui il titolo è usato in senso ironico. Volevo mostrare la distanza tra un’opera teorica così complessa e la fatica che facevano gli operai (e facevamo anche noi studenti) per cercare di affacciarsi sul piano della dottrina (parlo di “paradisi tersi della Teoria”) pur avendo corpi e menti sfiancati dalla giornata di lavoro. Ed è vero che quelle spiegazioni del «Manifesto del partito comunista» nello scantinato di un bar di periferia prendevano le forme semplificate di una catechizzazione che mi rimandavano ad esperienze parrocchiali vissute da ragazzo. Eppure non disprezzo ancora oggi quei momenti di bassa scolastica, perché erano riscattati da una spinta reale ad imparare e capire concetti utili per lottare e dare senso alla nostra militanza. C’era la percezione di essere in tanti a fare certe cose, che prima non si facevano: manifestazioni ma anche discussioni e seminari che preparavano i militanti a intervenire con più consapevolezza nelle infuocate assemblee di allora (in fabbrica, a scuola e spesso anche nei consigli comunali di paese). Sì, pensavamo di fare proprio lotta di classe. Anche studiando i testi difficili di Marx o di altri “classici”. E poi perché eravamo di Avanguardia Operaia, una formazione leninista che dava la dovuta importanza allo studio, alla teoria. Quanto ai poliziotti che difendono il Corriere della Sera l’accenno è alla manifestazione di protesta del 7 giugno 1968. Ne ho parlato qui:

“Fui presente anche in un’occupazione del rettorato della Statale, da cui i poliziotti ci sgombrarono trascinandoci di peso fuori uno ad uno; e nella protesta del 7 giugno – la data la desumo oggi ancora dal Web – quando il movimento degli studenti di Milano bloccò l’uscita del «Corriere della sera» dalla tipografia vicino via Solferino. Si volle denunciare la faziosità di quel giornale nel dare la notizia dell’attentato di un estremista di destra contro Rudy Dutschke, il leaderdel SdS a Berlino (11 aprile 1968). E accadde che, uscendo con amici a mezzanotte dalla sede della SIP in Piazza Affari alla fine del nostro turno di lavoro, vedemmo una marea di studenti che bloccavano il traffico in piazza Cordusio e nelle vie adiacenti. Il corteo si dirigeva lentamente verso la sede del «Corriere della Sera» per duplicare in Italia la protesta fatta dagli studenti di Berlino contro il giornale di Springer. Dopo un po’ iniziarono gli scontri. Una fila di poliziotti avanzava verso l’incrocio tra via Pontaccio e Corso Garibaldi picchiando ritmicamente i manganelli sugli scudi, che allora erano ancora metallici. Sbandamento della folla. Persi di vista i miei amici, mi ritrovai in mezzo a un gruppetto organizzato. Seppi che erano di «Potere Operaio» e venivano da Roma. Uno di loro, per evitare che i poliziotti ci localizzassero, centrò con mira formidabile la lampada del lampione che illuminava la stradina in cui, inseguiti, ci eravamo rifugiati. Per la prima volta tirai anch’io qualche sasso.”1

7) Proseguendo nella lettura, confesso che non sempre è facile seguire la narrazione per la frammentarietà delle prose, già ricche di accenni a situazioni fattuali e a concetti intellettuali che si susseguono in fitte sequenze di cui si intuisce il sentimento evocato più che comprenderne i contorni. Non so se quanto scrivo ti risulta comprensibile. Spero di sì perché vorrei fossi tu a spiegare da cosa scaturisce questa mia sensazione.

Sì, c’è frammentarietà. E questo mi dispiace. La mia ormai lunga ricerca è stata sempre troppo affollata, disordinata, costipata e convulsa. E non mi metto ora a considerare le ragioni. Nel caso di Immigratorio ho dovuto tagliare parecchio dalle tante versioni preparatorie accumulatesi dal 2004 al 2010. Ma lo stesso mi succede per il “narratorio”, di cui sono riuscito a pubblicare su Poliscritture soltanto dei pezzi. Oggi posso ipotizzare serenamente che le mie “poeterie” siano state uno “pseudonarratorio”, termine che usai come sottotitolo per Samizdat Colognom. O che il mio “narratorio”, non avendo trovato io mai il tempo necessario da dedicarci se non a intervalli, resterà incompiuto (e anche inedito).

8) Per quanto mi riguarda, una volta adattatomi a questa narrazione polifonica, singolare e plurale al contempo, e al fatto che comprendo solo parte dei riferimenti narrativi, riesco ad assaporare la bellezza amara di Nannìne, sulla morte della madre, e la sensualità de La giovane sposa feriale, mentre posso solo immaginare con un sorriso la polemica politica evocata in Colognosità, quando parli di 

professorini di marxismo-leninismo operaista […] invece di far crescere le avanguardie operaie sui luoghi di produzione, si impantanavano fino al midollo con casalinghe, pupi e paparini operai in una lotta di quartiere appena sopportabile se fatta da preti operai, cristiani per il socialismo o per gli spontaneisti di Lotta Continua. 

Ecco, qui mi verrebbe da chiederti se puoi dirmi di più su come hai vissuto lo spaccato politico di Cologno Monzese.

Lo “spaccato politico di Cologno Monzese” è pur esso a frammenti, ma penso di poterlo riassumere definitivamente nel termine di ‘colognosità’. Che – scrissi in un appunto di diario già nel lontano 1987 – «è un atteggiamento, una sensibilità verso il mondo. Forse altri avranno parlato di “mentalità da servi”, di “alienazione” o di “psicologia degli oppressi”. Fatto sta che l’esperienza quotidiana, che ho avuto con chi ha fatto e fa politica a Cologno (abito qui dal 1964) e in formazioni di qualsiasi colore politico, mi ha troppo spesso messo di fronte ad esempi di doppiezze servili, tortuosità nel condurre il confronto o lo scontro, un antintellettualismo esibito come un vanto, una invidia malcelata verso chiunque osi mettere in dubbio o criticare certi comportamenti e codici da clan parentali o amicali. Ma nel tempo ho assistito anche al lento o improvviso mutarsi di quelli che chiamavo “ribelli semi vermigli” in un ribellismo falso e con un fondo di malafede, pronto a mutarsi in collaborazione con i potenti (maggiori o minori, locali o regionali o nazionali) di turno. E in una sfiducia di pelle sulla possibilità di costruire rapporti non esclusivamente gerarchici tra individui e gruppi sociali».

9) Basso Immigratorio a Colognom si conclude evocando il vecchio Scriba, ossia Franco Fortini. Puoi spiegarmi – con tutti i limiti di una intervista – perché questo poeta è stato così importante per la tua formazione intellettuale?

Rispondo riportando una nota del mio diario del 1° ottobre 2009 intitolato Pensando alla morte di mio padre: «In Fortini allora vidi soprattutto il “compagno poeta”, non settario, non burocrate, uno della “generazione dei padri” di questo Paese; e pure il padre istruito e comunista, col quale sostituire il padre mio reale: poco istruito, contadino meridionale poi diventato carabiniere”».

Ecco forse il motivo più profondo della mia stima e fedeltà a questo scrittore “comunista speciale”2. Allo stesso tempo devo ricordare che già nella Poesia della crisi lunga che gli dedicai e gli spedii nel 1979, mi chiedevo in forma dubitativa: Tu dici Fortini per maestro? Fortini era già anziano quando io cominciai a leggere con grande interesse (e da militante in crisi) i suoi libri pubblicati o che ancora andava pubblicando, a partire da “Questioni di frontiera” (1977). E quando andai a fargli alcune visite nella sua casa di via Legnano a Milano e ad invitarlo ad alcune iniziative a Cologno, anche se sperai di stabilire un «filo» tra Milano e Cologno Monzese3, sapevo che era troppo tardi. Non poteva essere il Maestro che non ho mai avuto. Poteva esserlo “a distanza” o riconoscendo la distanza tra noi (che poi era anche quella tra la sua Milano e la mia periferia di Cologno). La sua opera mi resta cara perché mi servì per uscire con idee più chiare dalla crisi che portò alla fine di Avanguardia Operaia.  E per stare in guardia dai tanti “Fratelli Amorevoli”4 venuti dopo la sconfitta degli anni ‘70. Ma anche per cogliere la tensione irrisolta del ‘68-’69, poi svelatasi tragicamente autodistruttiva verso la fine degli anni ‘705. E per non volgere la faccia dalle ingombranti “rovine” della storia del comunismo sconfitto finendo per scendere a patto con il Capitale. Posso dire di non aver mai usato Fortini come stampella ma di sicuro come specchio in cui ho potuto vedere certe analogie tra i “Dieci inverni” vissuti da lui e dalla generazione della Resistenza e i ben più di dieci che mi è capitato di vivere. Nel Vecchio Scriba si può “riconoscere Fortini” (Cataldi, pag. 6), ma è il “mio” Fortini, quello da me scollato dalla cerchia accademica, che ieri lo trattava da “ospite ingrato” e lo ha poi imbalsamato sterilizzando il suo (per loro comunque insopportabile) “comunismo speciale”. Nell’“Ultimo dialogo tra vecchio Scriba e giovane Giardiniere” ho filtrato/immaginato un tentativo di raccogliere nella sua lezione anche quelle mancate, mediocri o confuse dei preti e professori di liceo della mia salernitudine.

10) La terza parte, Metafisica d’immigratorio, è un brano metaletterario che accenna alla composizione dell’intero testo. Che è opera sulla “condizione stabile della civiltà moderna, e del modo in cui il soggetto ha trasformato in destino la scelta dell’emigrazione” (ancora Cataldi). Ennio, a cosa miri con la tua opera? Mi riferisco non solo a Immigratorio ma a tutto quel che scrivi su carta e in rete, che so essere legato da un unico filo conduttore.

No, più che accennare alla composizione di Immigratorio ho voluto riepilogare i due passaggi (Barunisse, Salernitudine) che hanno preceduto l’lmmigratorio. E accennare a un bilancio-progetto. Oggi, a 13 anni dalla pubblicazione, sottolineerei certe espressioni-chiave: “orcio dell’immigratorio improvvisamente buio… nella disciplina di un duraturo purgatorio… senza code in paradiso… ci fu solo quel lampo”.  E chiarire che Metafisica d’immigratorio introduceva indirettamente la successiva e ultima raccolta di “poeterie” che ho pubblicato: La pòlis che non c’è. Sottolineerei molto anche che immigratorio è, sì, vicenda mia autobiografica e generazionale, che è confluita e si è persa – come quella di tanti – nella storia degli anni ‘50-’70 di questo “Paese mancato” (Crainz)6. O “allegorizzazione […] dei grandi movimenti migratori di oggi” e “ricostruzione  di una condizione stabile della civiltà moderna” (Cataldi, pag. 4) ma più esattamente per me è  purgatorio senza paradiso, assalto al cielo senza “rivoluzione” o “comunismo”, perenne condanna alla periferia (o alla perifericità) senza più relazione con un centro. (Penso per analogia a Leopardi condannato a rimanere a Recanati dopo il viaggio fallimentare a Roma). Si resta soltanto in immigratorio e basta. Dopo la pubblicazione di Immigratorio ho colto solo nuove fratture e vedo l’insieme del mio/nostro percorso o la costruzione/ricostruzione di un senso bloccato. È perciò imbarazzante per me tentare di rispondere a questa tua domanda finale. Con Immigratorio miravo ancora ad assolvere il compito di una poesia “sospesa fra regressione alla lingua pura della memoria e dura prosa del mondo…” o a delineare l’“archeologia del soggetto individuale e storico” (Cataldi, pag. 4). Oggi ritengo esaurito questo progetto. E la stessa “dinamica conoscitiva rivolta ai nuovi soggetti della storia” finora non ha avuto riscontro. Quei soggetti sperati delle nuove migrazioni planetarie restano merce schiavizzata e spesso annegata. Il “filo conduttore” che ho cercato – da ragazzo (A vocazzione), da giovane (buttandomi a Milano), nel ‘68-’69 partecipando all’occupazione della Statale7 e militando in Avanguardia Operaia e poi agendo a scuola come prof Samizdat e poi curando i moltinpoesia e le poliscritture s’è spezzato. In conclusione, sono rimasto in immigratorio. Posso solo scrivere samizdat e dire un “arido vero” politico di sconfitta8. Tu, anche se lettore benevolo, questo “unico filo conduttore” non lo puoi dipanare perché – diciamolo – non c’è. O non lo vediamo. E allora?

resta sempre
un triangolo d’ombra azzurra 
in cui s’accovaccia come bestia
l’attesa
di far ruotare ancora noi
ora così inesistenti
i prismi delle nostre e altrui intelligenze e passioni
in modo che un filo di luce
assieme
di nuovo strettamente
visibilmente
le ricucia      

come ho scritto nella rielaborazione del 2012 della “Poesia della crisi lunga” inviata a Fortini nel 1979? 

Forse9.

 

Lorenzo Galbiati

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NOTE AL TESTO:

) http://www.poliscritture.it/2018/03/17/da-renzo-tramaglino-meridionale-a-samizdat-scavando-nel-mio-68/ 

2) Come rivendicò lui stesso nella poesia intitolata Il comunismo: La disciplina mia non potevano vederla./Il mio centralismo pareva anarchia./La mia autocritica negava la loro./Non si può essere comunista speciale./Pensarlo vuol dire non esserlo. (Da Versi scelti, 136, Einaudi 1990).

3) Cfr. 

http://www.poliscritture.it/2021/03/24/un-filo-tra-milano-e-cologno-monzese/ .

4) Cfr. F. Fortini, I Fratelli Amorevoli, in “Insistenze”, pag. 270, Garzanti, Milano 1985. Un brano che li ritrae: “Si direbbe che i Fratelli Amorevoli [rispetto ai neo-gnostici medio-alto borghesi di cui ha parlato prima] siano invece a tutt’altra fascia sociale e culturale: quella degli intellettuali addetti alla riproduzione culturale (livelli non «baronali» nelle università e nelle istituzioni della ricerca, docenti delle scuole secondarie), alla informazione-comunicazione (editoria e stampa: spettacolo), alle arti, agli esperti di pubblicità e relazioni pubbliche; insomma a quelli che in Francia chiamano gli «intellettuali bassi». Ma con una importante differenza: i Fratelli Amorevoli non hanno nessun intento di inquadrare né di rappresentare nessuno. Il loro è un ceto di provenienza non di destinazione. Non hanno a che fare, o quasi mai, con la «razza padrona» né tanto meno con la «razza cialtrona» degli arricchiti da inflazione (né col personale politico e amministrativo che sappiamo quale cosa, in genere, sia). Non portano il lutto d’una perduta fraternità fra «compagni». Pochi fra costoro, anche per motivi di età, l’hanno conosciuta. E si scostano, all’odore di quei lutti”.

5) Cfr. le prime due puntate di “Fachinelli e/o Fortini?” su Poliscritture.

6) Cfr. Guido Crainz. Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma, 2003.

7) Cfr http://www.poliscritture.it/2018/03/17/da-renzo-tramaglino-meridionale-a-samizdat-scavando-nel-mio-68/

8) Cfr. le posizioni dell’ultimo Tronti: http://www.poliscritture.it/2023/08/18/morte-di-tronti-lenin-e-quello-che-manca-oggi/. O le mie obiezioni a Toni Negri: http://www.poliscritture.it/2023/08/21/il-nodo-storico-degli-anni-settanta/

9) Cfr. https://moltinpoesia.blogspot.com/search?q=crisi+lunghissima .

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ALTRI RIFERIMENTI IN SENTIERI DI CARTESENSIBILI

INTERVISTA-Lorenzo Galbiati: Ennio Abate e “Immigratorio”- Prima parte

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