RIMBALZI- Massimo Vezzaro: Che ce ne facciamo?

“agosto a osage county”- regia filippo dini – foto di scena 

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A volte i rimbalzi sono casuali o sghembi e la pallina torna indietro come vuole lei. Può succedere anche a teatro, tra pièce che sono in cartellone senza che ci sia un legame preciso o esplicito tra loro, se non la sequenza temporale. Un rimbalzo mi è venuto in mano tra i due spettacoli che hanno aperto la stagione di prosa del Teatro Stabile del Veneto, a Padova, in questo autunno del 2023: «Tipi umani seduti al chiuso», una “partitura sentimentale per biblioteche” dovuta ad un progetto ed alla regia di Lucia Calamaro e «Agosto a Osage County» di Tracy Letts, tradotta da Monica Capuani per la regia di Filippo Dini.

Rimbalzano le domande angosciose che si pongono i personaggi, sulla scena, immersi in due situazioni differenti, ma ammorbate dalla disfunzionalità. Una biblioteca gestita pigramente da personale svogliato, perso nelle proprie elucubrazioni su libri e scaffali da controllare con l’inventario annuale, nel lavoro di Lucia Calamaro: qui alle battute sui libri si alternano quelle sulla famiglia del direttore, Riccardo, sgretolata dall’usura del tempo e dai conflitti irrisolti. Le scene si svolgono invece in una casa di famiglia nel dramma di Tracy Letts: nelle diverse stanze, si ritrovano eredi e parenti di Beverly Weston, poeta da tempo inaridito, fiaccato all’alcol e scomparso all’improvviso. Il rimbalzo, dunque, riguarda i libri e le famiglie: «Che ce ne facciamo?» viene da chiedersi quando i personaggi ci mettono davanti agli occhi l’infelicità delle loro esistenze. Sono domande pesanti, che mettono in discussione cultura e famiglia, due istituzioni che sono dei pilastri di civiltà.

Ai libri accenna soltanto di sfuggita, all’apertura del sipario, Beverly Weston, quando fa riferimento alla spolveratura dei volumi invecchiati sugli scaffali mentre spiega alla neoassunta governante nativa americana quello che dovrà fare. È quasi un testamento: si tratta di tenere in piedi gli stanchi riti quotidiani di famiglia in una casa su cui ancora si proietta l’ombra delusa della gloria poetica d’un tempo. Di lì a poco, Beverly, che da anni soffre per la sua vena lirica prosciugata, deciderà di lasciarsi annegare, dopo un ultimo appello all’attenzione dei suoi familiari. I libri rimarranno lì perché al loro autore non parlano più. Anche i familiari si fermeranno nella casa di famiglia, ma solo per il tempo necessario a scoprire che tra loro non ci sono più occasioni di dialogo vero, né legami. Che se ne faranno, alla fine, di una famiglia così sfasciata?

I libri sono invece al centro della vicenda che «Tipi umani seduti al chiuso» mette in scena. Si parla dell’inventario, la croce di tutti i bibliotecari: fare il conto dei volumi che ancora ci sono e di quelli che non si trovano più. Ma siccome tutti siamo bibliotecari, come ripete Susanna, la giovane musicista che va in biblioteca a suonare il pianoforte offrendo quasi una quinta musicale agli personaggi, l’inventario può rappresentare, per ognuno di noi, una sorta di riepilogo mentale dei titoli e degli autori hanno contato della nostra vita. Un simbolo denso, dunque, nonostante l’arida idea che tutti possiamo farci di un controllo d’inventario. Una domanda 

Con un paradosso incisivo, rispetto al compito istituzionale di rimettere in ordine cataloghi e scaffali, i bibliotecari, complici i visitatori, buttano le opere in aria per lasciarle cadere alle loro le spalle, casualmente aperte, scomposte e inutili: Un gioco carnevalesco e liberatorio sembra voler marcare la distanza tra i libri e la vita concreta dei personaggi. Quella di Riccardo, il direttore della biblioteca, è scompaginata da una specie di diaspora del nucleo familiare. Laura, la sua compagna, se n’è andata in India a cercare una vita autentica. Ha lasciato lui alla sua vuota monotonia esistenziale di bibliotecario, pigramente impegnato con l’inventario e spaventato dalla propria incapacità di stare vicino al figlio Cristiano. Il figlio Cristiano si fa vivo solo per una scorribanda devastante tra gli scaffali, prigioniero di una rabbia giovanile incontenibile e ostilmente avversa al mondo, che ai suoi occhi non ha senso e merita solo la distruzione furiosa, l’accanimento contro gli oggetti, di cui i libri e gli scaffali della biblioteca assurgono a simbolo. Che cosa se ne faranno Riccardo e il figlio Cristiano di una famiglia così? 

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manuela mandracchia nella parte di barbara weston

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Simona, la scrittrice che prende la scena all’inizio e alla fine dello spettacolo di Lucia Calamaro, risponde a suo modo, nel monologo conclusivo, alla domanda sui libri. Pur avendo esordito con il progetto di un’opera che abbia per protagonisti i bibliotecari, ci parla poi d’altro ossia del “cruor”, il sangue nero rappreso che sembra marcare la nostra vita, fatta delle ferite aperte di cui i personaggi parlano tra loro e di cui risuonano le cronache del mondo. Quando i bibliotecari e i lettori hanno piegato il loro capo, esausti, dopo fatto volare in aria a dozzine i libri dei grandi autori, la donna non può che preconizzare il suo interesse per il corpo vivo. Il proposito che formula è quello di una passeggiata all’Orto botanico patavino, dove le piante sono in ordine, allineate con cura. ma crescono, crescono continuamente e vitalmente: perfino una palma nana può diventare altissima. Lì c’è la vita vera, nella sua pregnanza fisica e biologica.

Se la biblioteca di «Tipi umani seduti al chiuso» è devastata da un inventario trasformatosi in caotica liberazione dal patrimonio culturale, la famiglia Weston è guastata dai conflitti o, meglio, dalle relazioni ormai venute meno. Tutti i personaggi esibiscono qualcosa di diverso da quello che incarnano esteriormente, agli occhi degli altri. Mogli, figlie, sorelle, mariti, genitori, figli: tutti sanno (quasi) tutto delle debolezze e delle fughe degli altri in cerca d’altro (giovani amanti, pasticche, alcolici, canne, libri e barche a vela, hotel vicini, TV, film rari, corpi acerbi di donne su cui soddisfare fugaci impulsi erotici). Nessuno, tuttavia, è riuscito a trarne qualche conclusione utile per la propria vita, nessuno ha deciso qualche cambiamento.Ai membri delle famiglie disfunzionali, ci dice Tracy Letts, non resta che sputarsi addosso mezze verità in risse verbali continue, interminabili e ubique, in ogni stanza, in ogni coppia, in ogni relazione. Nessuno parla per comunicare, per trovare intese, per vicinanza. Tutti sbraitano, si liberano, vomitano parole irritate, sfiduciate, deluse, in una sorta di nausea esistenziale che non riescono a trattenere. La variante di genere è penosa: secondo Violet, interpretata da un’intensa Anna Bonaiuto, le donne invecchiate si fanno brutte e quindi inutili secondo i modelli dominanti di femminilità: a loro non resta che rifugiarsi nell’alcol e nelle pasticche. Gli uomini invece hanno quell’ultima risorsa: possono lanciarsi in avventure dall’incerto destino con partner più giovani: succede al marito di Barbara, una donna infelice a cui Manuela Mandracchia dà spessore drammatico, o al fidanzato di Karen, un’altra delle sorelle Weston, a caccia di frenetici e inconcludenti contatti sessuali con la figlia adolescente di Barbara. 

L’unica comunicazione autentica sembra essere nel calore consolatorio dell’abbraccio regalato a una Violet prigioniera delle pareti di casa dalla giovane domestica indiana, un fantasma di scena che ogni tanto appare per nutrire con piatti semplici, ma gustosi, la delusa, impotente rabbia degli ospiti di casa. Una sorta di paradossale accoglienza uterina da una donna giovane ad una ormai matura. 

Il sangue, le piante, il calore materno dei corpi a fronte dell’angoscia di vivere: la vita elementare, fisica, soccorre i personaggi fatti a pezzi da un’esistenza disperante, a cui i libri sembrano poter offrire solo una consolazione inefficace.

Per lo spettatore un rimbalzo d’inquietudine.


Massimo Vezzaro

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