IO SONO QUI TU DOVE SEI? – Lorenzo Galbiati: L’estraneità

carla bedini

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Le dita. Le unghie. La pelle.
Una parvenza di contatto, un primo assaggio di felicità, un sentore di nuova vita che d’un tratto è fluito nel nostro sangue.
Ma adesso devi tornare nella culla termica.
L’infermiera ci spiega che hai ancora la febbre, necessiti di un rifugio sterile fino a quando non sarà scesa la temperatura. La madre è dispiaciuta: ci fai assaporare goccia a goccia la gioia di stringerti tra le nostre braccia, poi ti allontani nuovamente da noi.

Guardiamo rassegnati l’infermiera riporti nel tuo santuario, sistemare sonde, cavi, tubicini e poi chiuderti nella culla sintetica. Chiediamo il permesso di restare ancora nella stanza dei neonati bisognosi di assistenza.
Siamo ancora in attesa – in attesa del tuo ingresso nel mondo. Ci separano strati e strati di plastica, di aria, di mascherine sempre attaccate alla nostra bocca, diventate ormai protesi orali, prolungamenti labiali permanenti.
Prendo uno sgabello, mi affianco alla madre assisa sulla sua sedia a rotelle. Rimaniamo in ascolto di fronte a te, come in un cinema dove proiettano un film muto. Qualche scambio di parole con l’infermiera per interrompere l’imbarazzante silenzio che regna nella stanza.
Ti vediamo aggrapparti con braccia e gambe a funi immaginarie, a liane che si inerpicano nell’invisibile foresta del tuo involucro artificiale. Di nuovo stai sfidando la gravità dormendo supina con gli arti protesi verso l’alto, verso un Cielo che ancora non ti ha schiuso la porta d’accesso alla vita piena.
Ti salutiamo.
Spingo la carrozzella della madre per i corridoi della clinica, torniamo nella nostra stanza, dove ci aspetta il pranzo. Ci scambiamo i primi commenti su di te, piccola creatura neonata.
La madre ancora indugia nel pensiero di averti nel suo ventre, figura i tuoi movimenti – che ha appena osservato – nell’oscuro mare della placenta, prova a immaginare l’effetto che le avrebbero fatto le tue contorsioni antigravitarie, gli arti che si estendono, ruotano, flettono – le gambe che si ritirano e poi scalciano. Ti sente ancora parte delle sue membra, fatica a realizzare completamente che è avvenuto il distacco, che si è compiuta la separazione.

-La nascita.

E il padre?

Io sento una voce dentro di me, calda, sussurrare: 

-Sono tua figlia. Prendimi, sono qui, sono tua. 

Come se potessi riconoscerti per il richiamo del sangue, per un istinto animale innato, codificato nel mio Dna, un archetipo dell’inconscio collettivo. Eppure questo presentimento s’impone solo a tratti nella mia mente. Per quanto vorrei non ci fosse, sento distintamente dentro di me anche un’altra voce farsi strada in modo insidioso e bisbigliare beffarda:

-Io sono un’estranea, non sono carne della tua carne, sono uscita dal ventre della mamma. 

La madre mi vede perplesso, chiede quali sono i miei pensieri. Eludo il discorso approfittando della sua stanchezza post-parto e post-pranzo, che la porta ad assopirsi in un meritato sonno pomeridiano.
Dopo cena arriva la notizia tanto attesa: non hai più la febbre.
Ci precipitiamo da te, sei sveglia, sgambetti con gli occhi chiusi. L’infermiera ti prepara, ti cede alle braccia della madre che ti appoggia al seno, ti vediamo ravvivarti nel pelle a pelle e finalmente possiamo portarti via, da sola con noi.
Affiora alla mente per la prima volta una parola: famiglia.
La madre ti coccola per tutta la sera, fino a quando ti addormenti sul suo ventre, il ventre che fino a ieri ti ha fatto da caverna. E poi ti passa a me, è venuta la notte.
Ti prendo tra le mie braccia, ti appoggio sulle ginocchia. Tu continui a dormire e presto la madre ti segue.
Sono l’unico rimasto sveglio. E ti guardo.
Questo esserino accartocciato ma con la pelle già stranamente bella e liscia è mia figlia. E io sono tuo padre. So di esserlo e ne sono compiaciuto. Sorrido all’idea di vigilare al sonno tuo e di tua madre, mi sento un degno rappresentante del genere maschile.
Ma torna a bisbigliare dentro di me quella voce beffarda che insinua il dubbio: Questa bambina è altro da te, è un’estranea.
Vorrei assaporare pienamente la sensazione di essere padre. Ma ancora non ci riesco. Mi viene in soccorso un ricordo: quello che mi ha detto un amico tanto tempo fa, anni dopo la nascita di sua figlia:

-La paternità non la si trova, non la si sente con il concepimento né con la nascita, la si conquista dopo, giorno dopo giorno, con la presenza e con il prenderla per mano.

Lorenzo Galbiati

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