ISTANTANEE- Sergio Pasquandrea: Note di lettura a “Salvare il necessario” di Clery Celeste

francisco de zurbarán- tazza d’acqua e rosa su un piatto d’argento

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Ci sono alcuni campi semantici che ricorrono con frequenza significativa in “Salvare il necessario”, opera seconda di Clery Celeste, arrivata quasi dieci anni dopo l’esordio, nel 2014, con “La traccia delle vene” (Lietocolle).

Innanzi tutto, si riscontra un’altissima occorrenza di termini relativi al corpo; non solo parole come testa, carne, capelli, lingua, bocca, braccia, gola, faccia, cuore, pancia, ma anche parti nominate con esattezza anatomica: trachea, cranio, costole, nucleo midollare, diaframma (l’autrice fa di lavoro il tecnico di radiologia). Soprattutto, il corpo è spesso malato o ferito: si parla di ginocchio abraso, sangue rappreso, ossa bucate, reni gonfi, lame delle coste; oppure è un corpo nudo, esposto, indifeso.
Un altro insieme di parole che torna con insistenza è quello che si riferisce agli animali: anche qui, pochi animali “poetici”, sostituiti invece da bisce, volpi, rane, pesci, lumache, formiche, ragni.
Già questo ci dà un primo indizio circa il tono del libro, in cui l’esperienza dell’io lirico è filtrata attraverso uno sguardo attento alla concretezza, che non ha remore nell’affrontare anche gli aspetti più crudi e sgradevoli dell’esistenza.

In “Salvare il necessario” si può leggere un ben delineato arco narrativo, veicolato però in forma ellittica, attraverso testi brevi e brevissimi, che si presentano come frammenti, schegge d’esperienza, mantenendo una coesione interna. Ciò è possibile perché nei quattro “movimenti” (più un “controcanto” finale), in cui la silloge è suddivisa, i temi ritornano e si riecheggiano di sezione in sezione, attraverso un lavoro di sviluppo, variazione e ripresa.
Il primo movimento, intitolato Siamo costretti a chiuderci in casa, parte da una condizione di sradicamento, alienazione, annullamento di sé. La “casa” in cui ci si rinchiude non è un luogo rassicurante, ma al contrario una dimensione artificiale, buia, denotata come sepoltura, vuoto, catacomba, cantina, in cui gli spazi (il letto, le lenzuola, il bagno, le finestre, il divano) comunicano il senso di una perdita, di uno spasimo che si traduce percettivamente nella sensazione di avere “dei buchi in testa da anni”.
Nel secondo movimento, Luce nel mio sangue, cominciano a filtrare immagini più positive: il fuoco, la sutura, il “pericolo di una libertà”, fino al gesto di “aprire la porta”, liberandosi dalla claustrofobia che finora aveva dominato la scena.
In Con tutta la pelle aperta, terzo movimento, a fare da padrone è il letto, in cui la congiunzione carnale prende di volta in volta l’aspetto della fusione, ma anche della distanza; e insieme si affaccia il lessema ricorrente del seme, della speranza di una futura fioritura.
Seme che torna, per schiudersi, nella sezione finale, Questa cosa che mi abita dentro: che termina, circolarmente, sull’immagine della casa, le cui le mura non veicolano più – come all’inizio del libro – lo stigma dell’esclusione, ma si tramutano in speranza di pacificazione: “Mi dici che è qui che devi stare / nel luogo in cui tuo figlio / può chiamarti e nella casa / trovare una risposta”.
Arriva poi il Controcanto finale a chiarire che, in fin dei conti, l’unica apertura possibile si trova nella condivisione del dolore, nella fattispecie quello di un figlio che assiste il padre morente, con un amore che non ha più bisogno di illusioni trascendenti: “Lui non crede ci sia nulla dopo la morte / e questo lo rassicura. / Nessun conto da pagare di nuovo / il saldo sta tutto lì, nella malattia / nei reni gonfi di suo padre”.

“Salvare il necessario” dimostra, nell’ancor giovane (poco più che trentenne) autrice, un notevole controllo formale e strutturale, unito a una fermezza di linguaggio che si traduce in immagini nitide e ben scandite. E ciò basterebbe già da solo a segnare uno stacco netto, rispetto al lirismo generico che affligge tanta poesia contemporanea.
Il tema del dolore è affrontato senza pietismi o autoassoluzioni, ma anzi con una decisa presa di coscienza nei confronti della vita, in tutti i suoi aspetti.

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Scelta di testi da “Salvare il necessario”

Ho dei buchi in testa da anni
ogni giorno scavo con le unghie
recuperare poco meno di un millimetro di carne.
Non so perché lo faccio
che sia per far passare la luce
arrivare al centro di me
estrarre tutto il buio.

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Quando da piccola cadevo
mi dicevano che senza aiuto
non ce l’avrei fatta. Sta in quella
negata volontà muscolare
il mio esistere inclinato
la crescita dei germogli in obliqua direzione
la linea della luce quasi orizzontale
sui sassi attorno ai vasi.

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Non so che senso abbia un corpo
nudo vicino a un altro
quale mostruosità temere
quale difficilissimo abbandono.

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Sono suturata dall’interno
con le braccia che si piegano
per prendere i lembi.
Mi portate in giro esposta
come qualcosa di raro
e allo stesso tempo spaventoso.
Spaventoso e ancora vivo.

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Il materasso è un varco scuro
le coperte porte allucinate
rimango sulla soglia, col piede appena
fuori dove tutto gela.
Se mi fai troppo tua mi scompongo
a che serve vedermi nuda
se mi hai vista già spezzata.

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Senti la struttura come crolla
il suono di polvere e vento
che fa le macerie delle cose distrutte,
delle vertebre infrante.
Mi poggio sui gomiti
calco il terreno a quattro zampe,
non è la posizione esatta della dignità
ma si avvicina a questo animale ferito.
Ora ci vuole l’aria e la cura lieve della terra
morbida e lucida dopo la pioggia.

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Arriverà e non sarà affatto come pensavi
l’amore ritorna sempre
composto o smembrato
sarà nel sorriso della cassiera
del ciclista che lascio passare
e se non sarà del mio cuore
va bene lo stesso, purché sia
mutata la misura sia comunque,
gli occhi aperti, come le braccia
e il resto del corpo.

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All’ora di luce che mi concedi
rispondo che parte solo da te
il tutto che viene e straripa.
Io resto fedele a me stessa
alla stasi propria del sangue rappreso
alla ferita verticale che cammina
e che sono sempre io.

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Clery Celeste (Forlì, 1991) è laureata con lode in tecniche di radiologia medica e lavora presso l’unità operativa di Medicina Nucleare. È diplomata in counseling transpersonale integrato. È runologa ed esperta di tradizione sacra norrena.
La sua opera prima, edita nel 2014, è La traccia delle vene (Lietocolle-Pordenonelegge).

Clery Celeste, Salvare il necessario– Pietre Vive 2023

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