IO SONO QUI E TU DOVE SEI- Lorenzo Galbiati: Il parto. La nascita!

andrea deidda

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Arrivo in clinica verso mezzogiorno e scopro di aver cantato vittoria troppo presto: Non stai per nascere.
L’anestesista, dopo aver applicato il catetere per l’epidurale, mi spiega che l’induzione, prima meccanica e poi chimica, ha fatto sì il suo effetto, ma alle prime contrazioni uterine non ne sono seguite altre. L’aumento dell’ossitocina, infatti, non produce ulteriore dilatazione vaginale.

Restiamo in attesa.

Verso le sette di sera avviene il rito di cui ho sempre sentito parlare in famiglia, con i parenti e gli amici, al cinema… viene provocata la cosiddetta “rottura delle acque”.
Sono in sala parto ormai da varie ore in compagnia dell’ostetrica e di due infermiere. Abbiamo tutti la mascherina a causa dell’emergenza covid.
L’ostetrica suggerisce alcune posizioni per facilitare l’arrivo di nuove contrazioni che, in effetti, giungono prima delle dieci di sera. Si effettua l’ecografia: la testa della bambina non è più incanalata in modo corretto. Ci dicono che il “feto non collabora”. 

-Cosa aspetti a voler nascere? Ci vuoi far tribolare fin dal primo giorno? –

La madre è sudata e dice di aver freddo, sente dei brividi. Le provano la temperatura: 38 gradi. Arriva la ginecologa. 

-Lei è il marito? Annuisco. Venga, si avvicini. 

Ci spiega che abbiamo due possibilità: fare un ultimo tentativo nella speranza che aumentino le contrazioni oppure evitare ogni problema e approntare un cesareo di urgenza – c’è il rischio di un’infezione.

La scelta sembra obbligata.

Il marito attenda nella sala d’attesa, sentenzia l’ostetrica, Allestiamo subito la sala parto.

È iniziato il parto cesareo. Lo apprendo in corridoio da una giovane infermiera quando l’anestesia – spinale, non più epidurale – è già stata somministrata. Durerà un quarto d’ora, mi dice la ragazza, È  un’operazione semplice.

-Io sono qui, voi dove siete? – 

 

Sala d’attesa. 

Vuota. 

Qualche sedia a muro. 

Pareti immacolate. Nessun quadro. Una finestrona aperta, fuori il buio della notte – arrivano folate di aria fresca. Dentro luci bianche che inondano la stanza di un fulgore quasi accecante. Nessuna sigaretta, nessuna camminata avanti e indietro al cospetto di altri padri in attesa. Solo io e il silenzio.

Passano i minuti.

-Io sono qui, dove sei papà? –

Torna l’infermiera: Venga, sua moglie è uscita dalla sala parto.
Evidentemente ci hanno sposati qui, all’ospedale – in realtà siamo compagni.
La madre è ancora sdraiata, stanca, parla a fatica. Ha ancora la febbre. Non ha mai tolto la mascherina durante il parto. E non ha potuto abbracciare la figlia, l’ha vista per qualche secondo in braccio all’ostetrica, che gliela ha mostrata senza lasciargliela toccare.

-Può andare a vedere la bambina, dice l’infermiera.

Cammino lungo il corridoio e arriva il primo pensiero ansiogeno: Qual è la tecnica giusta per prenderla in braccio?
Mi presento al gabbiotto delle infermiere, dico che sono il padre di Alice, la bambina appena nata con il cesareo. Non lascio loro il tempo di rispondere: aggiungo che non so come prenderla in braccio. Mi rispondono che Alice è nata con la febbre, pertanto è stata portata al piano superiore, dovrà stare nella culla termica per almeno 24 ore. Mi dicono di non preoccuparmi. 

Ma stranamente non sono preoccupato, sono solo curioso di vederti.
Salgo le scale, giro freneticamente nel corridoio finché vedo la sala dei neonati.
Entro, mi guardo intorno e arriva il secondo pensiero ansiogeno: Vuoi vedere che l’hanno scambiata con un’altra bambina? Il cinema a volte fa dei brutti scherzi alla salute psichica.
Preciso con pedanteria che sono il padre di Alice, la bambina nata con un cesareo d’urgenza non più tardi delle undici e mezza. Voglio esporre le informazioni in mio possesso in modo esauriente e preciso: ritengo che ci sia una sola bambina nella clinica cui possano corrispondere tutti i requisiti da me elencati.
L’infermiera mi sorride e indica la culla termica più lontana. Io non volto la faccia, voglio prima appurare la sicurezza che traspare sul suo volto. La giudico soddisfacente, posso trattenermi dal chiederle se è sicura che Alice sia proprio quella bambina nell’angolo.
Mi avvicino con passo felpato. Noto che sulla culla termica – apparecchio trasparente igienizzato, sterilizzato, quasi fantascientifico – c’è scritto Alice, con tanto di secondo nome e di cognome. Forse sei davvero tu.
Ti guardo. Vedo un animaletto, un cucciolo d’uomo neonato. Sei dormiente, gli occhi chiusi, in posizione supina con braccia e gambe accartocciate verso l’alto.
La saturazione dell’ossigeno non è ancora ottimale. Ma sento che stai bene.
Sei un piccolo animaletto. Il mio.
Scatto le prime fotografie, faccio il primo video.
Comincio a essere contento.
Ti guardo ancora una volta prima di tornare dalla madre.
Mi pare di sentirti:

-Io sono qui, dove sei mamma? – 

Lorenzo Galbiati

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